EZRA POUND UNIVERSITY

"Se un uomo non è disposto a perdere la sua vita per una idea, o vale poco l'idea o vale poco l'uomo"

mercoledì 4 novembre 2015

RCULT

Riporto integralmente l'intervista rilasciata da Mary de Rachewiltz ad Antonio Gnoli, apparsa oggi su "La Repubblica". Per inquadrare meglio il personaggio vorrei chiamare in causa direttamente il Prof. Antonio Pantano, profondo conoscitore dell'opera di Ezra L. Pound, nonchè degli eventi storici che hanno caratterizzato il ventesimo secolo.Il richiamo mi sembra d'obblgo, vista l'importanza della scrittrice americana, al fine di inquadrare meglio il personaggio e "correggere" eventuali interpretazioni errate e tendeziose, riportate qui di seguito nell'intervista. (Pierluigi Caravella)
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RCULT
Mary de Rachewiltz
“Ironico, ribelle, ballerino di tip tap così ricordo mio padre Ezra Pound”
ANTONIO GNOLI
Varia fu la vita di Ezra Pound. Sommò intelligenza sublime e operosa, ostentate polemiche (da parte soprattutto di coloro che ne videro un dilettante, anche se di talento) e punizioni terribili. Su quest’uomo — nato a Hailey nell’Idaho — che amò come pochi l’Italia tanto da considerarla una specie di patria culturale, scese una strana notte. Una di quelle notti che non creano legami, ma spavento, che tengono distanti gli uomini dalla vita. Non è facile immaginare cosa provasse in quei momenti e a quale grado di sopportazione fosse giunta la sua resistenza. Ma è con questa immagine senza fiato che vado a trovare la figlia di Pound: Mary de Rachewiltz nel suo castello sopra Merano. È una donna che, nei tratti, rivela un’antica bellezza (ha compiuto in luglio novant’anni). Energica e dolce. Dotata di uno spirito franco e battagliero. Capace di arrabbiarsi, denunciando l’appropriazione indebita che “Casa Pound” ha fatto del nome del padre: «Una vergogna», commenta asciutta.
Ci sediamo nella stanza dove Pound passò alcuni degli ultimi anni della sua vita. Tra i mobili in legno che progettò, alcune copie dell’ Ulysses , dizionari e i libri che erano serviti, in parte, alla stesura dei Cantos , in parte per lavorare su Dante e Cavalcanti. Proprio su Dante sono usciti i suoi saggi: un libro misterioso che Vanni Scheiwiller non fece in tempo a pubblicare e che ora vede la luce, per Marsilio, grazie all’ottima cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani.
Vorrei chiederle intanto del suo cognome. Lei non porta quello di suo padre. Perché?
«Era già sposato, e non poté unirsi in matrimonio con mia madre: Olga Rudge. Mi chiamo Maria Rudge. De Rachewiltz è il cognome di mio marito Boris: un personaggio a suo modo singolare. Fu egittologo, incline al mistero. Il padre acquistò questo castello dove, a un certo punto, ci trasferimmo».
Suo padre con chi era sposato?
«Con Dorothy Shakespear da cui ebbe un figlio, Omar. Ma il vero amore fu con mia madre. Un’irlandese testarda, eccellente violinista, innamorata di quest’uomo speciale. Si scambiarono lettere per quasi tutta la vita».
C’è un verso famoso dei Cantos: “Conta solo l’amore, il resto è spazzatura”. Davvero contò solo l’amore?
«L’amore era per lui qualcosa di universale. Non solo l’amore per una donna, ma anche per un poeta, per uno scrittore, per un paese o una città. L’amore era la capacità di vivere con intensità quanto gli accadeva».
E crede che suo padre l’abbia amata a sufficienza?
«Penso di sì. Fu straordinario, anche se intermittente, il nostro rapporto».
Però la sua infanzia non fu facile tra queste due presenze — sua madre e lui — così forti e autonome.
«Non fu facile ma fu felice. Vissi selvaggiamente i miei primi anni in una casa di contadini a Gais in Val Pusteria. A quel tempo la mamma — grazie alle sue competenze musicali — lavorava soprattutto a Siena con il Conte Chigi. Mentre il babbo viveva un po’ a Rapallo e un po’ a Venezia».
Perché suo padre scelse l’Italia come luogo dove vivere?
«Perché amava il bello e il bello era l’Italia, che ritrovava nei mosaici di Ravenna, nella pittura del Quattrocento o nella poesia del Trecento. Amava Venezia. Vi giunse la prima volta da bambino nel 1890».
È giusto ricordare l’attrazione estetica che suo padre ebbe per il nostro paese. Ma ci fu anche l’attrazione politica per il fascismo. Come giudica questo secondo aspetto?
«Mio padre non subì nessuna infatuazione dal regime fascista. Apprezzò viceversa la figura di Mussolini. Tanto che nel 1933 andò a Roma per donare una copia dei Cantos al Duce».
Cosa trovava nel grande dittatore?
«Pur tra gli equivoci che con il tempo si produssero, credo che vedesse in lui quello che Machiavelli vide nel
Principe , cioè la figura in grado di affrontare e risolvere i gravi problemi del paese. Tra l’altro era convinto che Mussolini non volesse la guerra. Ne parlò con George Santayana. Anche lui certo che Mussolini non avrebbe mai dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra ».
E invece ci finì dentro. Lei come visse gli anni della guerra?
«Ricordo l’ultima vacanza a Venezia. Era l’ottobre del 1940. Con il babbo andammo al Lido. Ogni cosa sembrava spenta. Diversa rispetto agli sfavillanti anni precedenti. Vissi l’entrata in guerra con questa percezione di dissoluzione».
Come reagì?
«Ero disorientata. La mia educazione si era svolta fuori dagli obblighi scolastici che vivevo come un incubo. Amavo leggere quello che il babbo mi consigliava. Un libro che mi affascinò furono Fiabe del Kordofan di Leo Frobenius».
Si conoscevano Frobenius e suo padre?
«Piuttosto bene. Ricordo che nell’edizione tedesca era apposta una dedica di Frobenius. Poi i due si scambiarono lettere. Entrambi mostravano un grande interesse per le civiltà scomparse. Alle tracce che erano sopravvissute: “ Risvegliare i morti” sentivo a volte ripetere. Ossia la capacità di tenere assieme il mito e la storia. Ma sto divagando. Ricordo, sempre a proposito di libri, che quando lessi le memorie di Florence Nightingale decisi che avrei fatto l’infermiera».
Ci riuscì?
«Nell’aprile del 1944 fui presa come segretaria nell’ospedale tedesco di Pocol. Non era esattamente come fare l’infermiera ma entrai in contatto con quel mondo della convalescenza dove il confine tra speranza e disperazione non era del tutto definito».
Che gente si curava?
«Soldati tedeschi vittime anche loro della guerra. Soprattutto cinquantenni: infermi, feriti, malandati, spesso senza denti, ingrigiti nei capelli. Non era un bel vedere. Ricordo, poi, la stanza numero 20».
Cosa aveva di particolare?
«Era detta la stanza dei morituri. Ci portavano i casi disperati. Vidi uno di quei casi. Un aviatore, giovane. Malridotto. Mi scambiò per un dottore. Voleva che fossi io a curarlo. Gli dissi che ero solo una segretaria. Mi mostrò le sue foto. E la medaglia d’argento. Mi raccontò della sorella che studiava medicina a Norimberga. Alla fine riuscii a parlare con l’infermiera che lo aveva in cura e credo che grazie alla sua assistenza quel soldato sia stato uno dei pochi a uscire vivo dalla stanza numero 20 ».
La guerra era persa. I tedeschi in rotta. Mussolini decaduto. E poi il tentativo di fare un nuovo governo, una nuova patria: la Repubblica sociale. Suo padre aderì, perché?
«Forse per un assurdo senso dell’onore e della coerenza. Non era, del resto, capitato qualcosa di analogo a Giovanni Gentile?».
Gentile fu ucciso. Suo padre catturato alla fine della guerra. Lei era abbastanza grande per avvertire tutta la forza della tragedia che si stava consumando.
Quando ne ebbe la certezza?
«Dovrei fare un passo indietro. Quando ci fu l’attacco a Pearl Harbur, da parte dei giapponesi, mio padre restò sconvolto. Poi, l’America dichiarò guerra. A quel punto come tanti americani cercammo il rientro in patria con l’aereo. Ci fu negato. Ci proposero il piroscafo.

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